MEDIO ORIENTE: LA FINE DI UN MONDO
Questa estate, in poche settimane, quello che era considerato un gruppo di fanatici jihadisti è diventato una grave minaccia in tutta la Mesopotamia, scuotendo dalle fondamenta l’intera regione. Il sociologo Renzo Guolo ci aiuta a tentare di capire cosa sta succedendo in Iraq e in Siria, dove la crisi umanitaria diventa giorno dopo giorno sempre più grave.
Un conflitto feroce, che quotidianamente ci invia notizie di persecuzioni ed esodi forzati, fucilazioni di massa, violenze di ogni tipo. E’ quello che si sta consumando tra Siria e Iraq dove l’Isil, il gruppo che si fa chiamare Stato islamico da quando ha proclamato la nascita del califfato alla fine di giugno, è diventato una minaccia strategica di prim’ordine. Guidato da Abu Bakr Al Baghdali, sta consolidando il suo controllo su parte della Siria e si sta radicando sul territorio iracheno.
“Quello in corso in Mesopotamia è il crollo di un mondo – spiega Renzo Guolo, docente di Sociologia all’Università di Padova -, un terremoto politico e culturale che non ha precedenti” che ha visto l’avanzata fulminea del gruppo jihadista dell’Isil contro le minoranze, cristiane o yazidi, e contro gli sciiti.
Cosa sta accadendo in Medio Oriente?
Assistiamo alla destabilizzazione dei confini degli stati nazionali usciti dal tracollo dell’impero ottomano all’inizio del secolo scorso. Il gruppo di Al Baghdadi, che rappresenta un fattore di grande destabilizzazione per tutta la regione, ha sfruttato un vuoto creato dall’assenza dello stato e dalla perdita del senso di appartenenza nazionale in Siria e in Iraq. A Baghdad l’Isil si riconduce alla componente sunnita irachena, tenuta ai margini da un governo che, a partire dall’invasione guidata dagli Stati Uniti dieci anni fa, si è sempre più caratterizzata per una forte impronta sciita. Inoltre, sostiene la maggioranza sunnita in Siria, temprata dalle repressioni e dalla lotta a Bashar Al Assad. La crisi degli stati nazionali ha portato le comunità a cercare identità di appartenenza religiosa o etnica, mettendo in discussione la configurazione territoriale dei regimi al potere.
Lei ha definito questa “una guerra per procura”. Perché?
Sullo sfondo del conflitto stanno le due potenze confessionali protettrici dell’una e dell’altra parte in campo: l’Arabia Saudita per i sunniti, l’Iran per gli sciiti che su questo terreno di guerra entrano in concorrenza tra loro. Lo Stato islamico si è di fatto affermato all’interno del fronte dell’opposizione militare siriana grazie all’appoggio di Riyad, tanto che ora gli Stati Uniti cominciano a pensare che Assad sia “il male minore”, e si è imposto in Iraq dove l’Iran sostiene il governo violento e settario dello sciita Al Maliki. Ciò non sarebbe stato possibile senza i proventi e gli aiuti che provengono dal Golfo. Teheran, dal canto suo, si è concentrata sulla repressione della rivolta contro gli Assad e ha appoggiato gli sciiti di Baghdad. L’Arabia Saudita, monarchia assoluta sostenuta da un apparato religioso wahabita – una corrente assolutista dell’islam sunnita -, ha contrastato l’Iran nei conflitti in atto nella regione mediorientale. E anche la Turchia ha giocato la sua parte a fianco della jihad.
Quale “exit strategy” è perseguibile?
Serve un progetto strategico che ridefinisca gli equilibri di tutta l’area. Ad oggi appare evidente come l’Onu non sia efficace senza l’accordo tra le superpotenze e che gli Stati Uniti siano quantomeno riluttanti ad intervenire in quel “vespaio”, specie dopo l’esperienza in Afghanistan. Credo non ci potrà essere soluzione senza una “Jalta mediorientale”, una conferenza che riconosca gli equilibri e le sfere d’influenza delle potenze coinvolte. Il vero nodo da sciogliere resta il grande conflitto tra Iran e Arabia Saudita, dentro cui ogni guerra regionale e locale assume la sua cornice. E quel conflitto non è prettamente economico – per cui sarebbe anche più facile una negoziazione e un punto di accordo di interesse – ma una competizione per l’egemonia dell’islam religioso.
La componente confessionale è dunque il tassello fondamentale di questa disgregazione?
Venendo meno gli stati nazionali e i regimi che li hanno guidati, sono caduti anche i partiti nazionalisti che li hanno sostenuti e che erano interconfessionali: oggi quello di Assad, come dieci anni fa quello di Saddam Hussein. Ora le comunità si identificano prima come sunnite o sciite e solo in un secondo momento come irachene, o siriane, o turche… L’identità religiosa, che non è una questione di fede quanto piuttosto etnica e di comunità, supplisce al vuoto politico e nazionale.
Si discute molto di italiani, europei, volontari per il jihad…
Secondo la nostra intelligence sono circa una cinquantina gli italiani, cittadini di seconda generazione, residenti e convertiti, che combattono tra Iraq e Siria nell’Isil. Qualche migliaia invece gli europei jihadisti in Medio Oriente. Si tratta di un fenomeno che riguarda la natura globale dell’ideologia islamista radicalizzata; questa estremizzazione sfrutta il rancore, l’incertezza, l’insoddisfazione di persone che vivono in Occidente con storie di vita faticose sia per identità che per integrazione. L’islam radicale è l’ultima grande ideologia totalizzante rimasta, che divide in amico/nemico, noi/loro, offrendo uno sbocco al rancore e un’esperienza collettiva forte. Va contrastato non solo sul piano della sicurezza perché è soprattutto una battaglia culturale, in cui la componente islamica moderata va coinvolta e valorizzata.
Il Papa ha parlato di terza guerra mondiale, ma “a pezzi”. Cosa le richiama questo grido d’allarme?
Viviamo un tempo storico di grande conflittualità globale: non solo l’Iraq o la Siria; pensiamo alla guerra tra palestinesi e israeliani, alla martoriata Africa, all’Ucraina… Da un punto di vista di macroscenario, ciò dipende dal grande vuoto che il progressivo ritiro delle superpotenze Stati Uniti e Russia hanno lasciato nel pianeta. Si tratta di un elemento abbastanza recente, se pensiamo che dopo la seconda guerra mondiale le sfere di influenza erano chiaramente definite, così come gli equilibri e le alleanze. Oggi il mondo è troppo grande per essere governato solo dagli Stati Uniti d’America, che per primi si dimostrano riluttanti ad intervenire per garantire o ristabilire equilibri di convivenza nelle zone martoriate dalle guerre. La loro progressiva ritirata ha lasciato vuoti di controllo e di potere; la Cina è senza dubbio una superpotenza economica ma non politica. Certo, nell’arco di questo secolo la prima porterà inevitabilmente alla seconda.
UCRAINA, MEDIO ORIENTE, NORD AFRICA: NON CEDEREMO ALLA STRATEGIA DEL CONFLITTO
Le Acli incalzano l’Europa ad assumersi la responsabilità di una autorevole posizione sulla scena internazionale, per costruire un percorso economico e geopolitico capace di realizzare la pace.
Un mix potenzialmente in grado di innescare un conflitto dalle proporzioni inimmaginabili. E’ quello, secondo Gianni Bottalico, presidente nazionale delle Acli, che si alimenta su due questioni di fondo: da un lato una crisi economica che viene affrontata rafforzando le cause che l'hanno prodotta anziché costruendo una nuova politica economica che ridia centralità al lavoro; dall’altro la strategia occidentale prevalente che mira ad impedire con tutti i mezzi, anche quello militare, il passaggio dall'unilateralismo americano al multipolarismo nella gestione della politica mondiale.
“L'incapacità dell'Europa di collocarsi autorevolmente ed autonomamente sulla scena internazionale – sottolinea Bottalico -favorisce la strategia delle forze che, pur di salvaguardare i loro attuali smisurati vantaggi economici e di scongiurare una loro bancarotta, mirano a ricompattare l'Occidente contro il resto del mondo e in particolare contro i grandi paesi emergenti che costituiscono il club dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) non escludendo più alcuna opzione, compresa la più infausta: quella di un conflitto generalizzato, il cui rischio cresce con il dilagare della strategia del caos che ormai accerchia l'Europa, dall'Ucraina, al Medio Oriente, al Nord Africa”.
Le Acli si sentono impegnate a sensibilizzare le coscienze sulla gravità di questa fase storica, per fare in modo che nel difficile presente “non si ripetano gli sbagli del passato, ma si tengano presenti le lezioni della storia, facendo sempre prevalere le ragioni della pace mediante un dialogo paziente e coraggioso”, secondo l'auspicio di papa Francesco formulato alla vigilia del centenario dello scoppio della Grande Guerra. “Nonostante tutto, guardiamo con fiducia e speranza al futuro. Siamo artefici del nostro destino, ma in fasi come l'attuale risulta decisivo su quale versante della storia collocarsi sui temi del lavoro, della democrazia, della pace. Non assisteremo passivamente ad una strategia economica e geopolitica che rischia di far precipitare il mondo in un nuovo grande conflitto”.