Una "economia solidale" per la fase 2. L'intervento di mons. Tomasi
Nel numero in uscita della “Vita del popolo” il vescovo, Michele Tomasi, propone una riflessione sul tema del “dopo emergenza”, in seguito all’interesse che ha suscitato l’omelia pronunciata domenica scorsa, 19 aprile, durante la messa nel Battistero della cattedrale. Eccola:
“Il tuo grano è maturo oggi, il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se oggi io lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo nessun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che domani tu mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma il maltempo sopravviene e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di una garanzia” (David Hume, Trattato sulla natura umana, 1740, libro III).
Questo apologo di David Hume, famoso filosofo illuminista scozzese del Settecento, può aiutarci a cogliere uno dei dilemmi di fronte al quale ci troviamo in questo momento così delicato e difficile della nostra storia. Condividiamo in maniera evidente come non mai un destino comune.
Non è purtroppo ancora terminata la grande emergenza sanitaria che ha causato tanti lutti, che tanto impegno e fatica sta chiedendo a tutto il sistema sanitario, che impone sacrifici a tutti, individui e famiglie, e già dobbiamo riflettere su come mantenere la solidarietà sociale ed economica che ci ha contraddistinto nella storia e che ancora ci caratterizza.
Ma quello espresso dal dialogo tra i due agricoltori può essere sicuramente un rischio di questo periodo. Giustamente ciascuno si preoccupa per sé e per i suoi, cercando il modo migliore per uscire da questa crisi. Chi costruisce nelle proprie attività, quali che siano, con senso civico, con attenzione alle regole, con spirito comunitario, vorrà continuare a farlo anche in condizioni difficili; chi tende a cavarsela in un modo o nell’altro sarà tentato anche ora di far ricorso a stratagemmi, più o meno onorevoli. Se però non abbiamo motivi di fiducia reciproca, o se le regole da seguire non sono sufficientemente chiare e vincolanti, si rischia il blocco. Il maltempo (nel nostro caso, ahimè, la pandemia) è arrivato, e ora siamo legati gli uni agli altri: quello che di buono sta succedendo, nella capacità di reazione di tutto il nostro sistema, dipende dai legami e dai vincoli di fiducia e di collaborazione che abbiamo stretto sinora. Altrimenti, la tentazione di andare ciascuno per sé diventa probabilmente troppo forte, e rimaniamo esposti alle intemperie.
Non ci salviamo da soli
La situazione ha bisogno di soluzioni solidali, coese, a tutti i livelli. Davvero non ci si salva da soli. Più volte e con forza ce lo ha ricordato il Patriarca di Venezia, richiamando le responsabilità di una risposta unitaria e forte da parte dell’Europa: “L’Europa potrebbe farci vedere in questa emergenza quanto è essenziale, decisiva e importante”.
Si dice che bisogna far ripartire la macchina economica. È vero. Ma l’economia è qualcosa di più complesso e delicato di una macchina. Per usare un’altra immagine, è più un ecosistema, un sistema interconnesso e vitale, perché è, alla fin fine, una rete complessa e articolata di persone. A una macchina puoi cambiare qualche pezzo di ricambio ed essa continua a funzionare, magari anche meglio di prima. Se a un’economia togli una parte, quella parte era un’impresa, una bottega artigiana, un negozio, un operaio, un impiegato. E sempre insieme ad altre persone, i colleghi, i dipendenti, i fornitori, le famiglie. E non è la stessa cosa che dopo la ripartenza ci siano ancora tutti oppure no.
Per aiutare le singole persone, anche e soprattutto i più deboli e i più fragili, ci vuole il contributo di tutti, e ci vuole ora.
Lo Stato e le reti di solidarietà
Lo Stato e i suoi organismi debbono dare tutte le garanzie affinché le persone possano prendersi cura delle proprie attività, affinché non ci siano i drammi di perdite di posti di lavoro, o di chiusure. Ciascuno dovrà garantire, con comportamenti responsabili e affidabili, l’impegno a fare la propria parte, a non tradire la fiducia accordata, anche con sacrifici sugli stili di vita, anche con necessarie scelte di sobrietà. Quello che non viene dallo Stato – o fino a che quanto messo a disposizione non arriva – dovremo metterlo in circolo con grandi reti di solidarietà.
Un ecosistema vitale ha bisogno di tutta la sua diversità, affinché il valore che circola in esso possa arrivare a più persone e famiglie possibile. Il sole che batte sul deserto o su un piazzale asfaltato riscalda solo la superficie e si disperde. I suoi raggi che danno energia a una foresta rigogliosa passano alle piante, a quelle grandi e a quelle più piccole, alle alte e al sottobosco, agli animali di tutti i tipi che vi abitano, a tutte le forme di vita che interagiscono e si alimentano e si sostengono a vicenda. Lo stesso calore si trasforma qui in una vita lussureggiante.
Denaro, beni, servizi, imprese, innovazione, terzo settore
Così è anche per l’ecosistema che è la nostra economia. Il denaro che circola in un’economia differenziata e vitale può fare molta strada e rinforzare molte attività durante il suo passaggio. Abbiamo bisogno di produzione di beni e di servizi, di filiere produttive articolate e interdipendenti, di imprese grandi e piccole, di un’agricoltura che valorizzi il territorio e le sue risorse; abbiamo bisogno di posti di lavoro e di spazi di innovazione e di partecipazione, in particolare per i più giovani; abbiamo bisogno di un terzo settore che sappia rispondere alle necessità dei singoli e delle famiglie con creatività e competenza, abbiamo bisogno di una vita culturale di spessore e di qualità… dobbiamo insieme prenderci cura della varietà delle articolazioni della nostra società.
Toniolo e la cooperazione
Più di cento anni fa il beato Giuseppe Toniolo, un grande trevigiano, mentre era professore di Economia politica all’università di Padova ha scritto un libro dal titolo “Sulla distribuzione della ricchezza”. In esso, tra tanti altri argomenti, prendeva posizione a favore della cooperazione – grande contributo delle nostre terre allo sviluppo di un’economia moderna e solidale – e distingueva fra tre forme di essa, quella di consumo, di credito e di produzione. Se la prima permetteva alle classi lavoratrici e agli artigiani di risparmiare sui consumi, le altre permettevano una circolazione solidale del denaro e una partecipazione ad imprese condivise. Anche allora, forme differenti di collaborazione per mettere a disposizione di tutti i vantaggi del progresso. “La cooperazione intende a favorire e attuare immediatamente l’esercizio dell’industria da parte dei popolani” scriveva Toniolo. L’italiano dell’Ottocento è un po’ distante dal nostro, ma il contenuto credo sia chiaro ed ancora illuminante. Le forme di cooperazione “tutte convergono quindi a creare un ceto di mezzane e minute imprese, che soddisfino in qualche misura all’aspiro d’indipendenza della parte più eletta di lavoratori e colmino l’abisso fra il salariato e i grandi imprenditori” (Giuseppe Toniolo, “Sulla distribuzione della ricchezza. Lezioni”, 1878, 123). Si tratta dunque di un ceto di piccole e medie imprese, oggi aggiungeremmo anche il terzo settore e la grande esperienza del volontariato, come espressione viva della società civile.
Partecipare al bene comune
Anche noi oggi possiamo osare nel trovare forme nuove di collaborazione fra tutti, in proporzione alla dimensione della sfida che ci sta davanti. L’intreccio delle forme di vita sociale ed economica va salvaguardato per garantire a tutti di partecipare in maniera responsabile e dignitosa al bene comune. Questo permetterà anche di integrare tutti quelli che fanno più fatica, per molti motivi, a tenere il passo: ridurre le disuguaglianze è un servizio efficace all’inclusione di tutti, alla condivisione di una vita migliore per tutti noi, al superamento della crisi che stiamo vivendo.
David Hume non aveva una grande fiducia nelle motivazioni individuali in vista del bene comune, e credeva di più a sistemi di regole e a dure sanzioni. C’è certamente bisogno anche di questo. Sicuramente aveva ragione quando descriveva la natura della felicità, allora come ora: “Una solitudine completa è forse il castigo più grande di cui possiamo soffrire, ogni piacere goduto da soli languisce, ogni pena si fa più crudele e insopportabile… Che la potenza e gli elementi della natura obbediscano all’uomo, che il sole sorga e tramonti a un suo cenno, che la terra lo provveda di ciò che gli può essere utile e gradito, egli rimarrà un infelice fino a quando non mettete vicino a lui una persona con cui dividere la sua felicità” (“Trattato dell’umana natura” II, II, 5).
E questo, credo, lo possiamo confermare tutti, in questo nostro tempo di isolamento.
+ Michele Tomasi, vescovo