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"Identità ed integrazione": i premiati del concorso a Cordignano

    "Identità ed integrazione": i premiati del concorso a Cordignano

    Il concorso “La minaccia dell’intolleranza e del pregiudizio per il dialogo interculturale” è stato ealizzato con gli studenti delle terze medie dell’Istituto Comprensivo di Cordignano. 70 ragazzi coinvolti.

    GUARDA LE FOTO DELLA SERATA E DELLE PREMIAZIONI >>>

    Ecco i testi dei tre vincitori, premiati durante il convegno "Il nostro paese e l'immigrazione" cui è intervenuto il prof. Renzo Guolo >>>

    PRIMA CLASSIFICATA
    Andrea Cristina Coan

    PREGIUDIZIO

    Pregiudizio,
    un pugno di ferro
    nel mezzo del petto;
    un pensiero sbagliato
    che ferisce nel cuore
    e causa dolore.
    Tolleranza,
    un sorriso alla persona che attraversa il blu del mare
    per trovare pace;
    porgere una mano ad una persona che lascia la sua terra
    per sfuggire alla guerra e alla fame;
    mettersi davanti allo specchio e capire che siamo tutti umani!
    Dialogo,
    per unirsi contro tutte le minacce:
    cancellare le differenze tra gli uomini,
    per essere tutti fratelli;
    spegnere il fuoco che provoca guerre e distruzione;
    eliminare il concetto di “razza” e di “diverso”,
    per un mondo di uguaglianza!

    SECONDA CLASSIFICATA
    Laura Aurighi

    Guardavo gli altri bambini giocare. Correvano e si scontravano fra di loro. Poi si nascondevano dietro ai cespugli e fingevano di avere delle pistole: “Pum! Pum!” urlavano, puntando verso quelli sotto al tavolo. Altri rotolavano sull’erba, poi si alzavano e salivano su carrarmati immaginari, li guidavano fino alla base avversaria e gridavano “Arrendetevi!”. Avevano aspettato la ricreazione per fare finta di uccidersi? Non capivo. Volevo fermarli, mi ricordavano la guerra.

    Abbassai lo sguardo e i miei occhi si posarono su un bambino, Marco, che, anziché fingersi un soldato, faceva muovere un esercito di soldatini stipati in file ordinate sopra al muretto. Erano sull’attenti, quei soldatini, pronti a sparare al minimo cenno del loro capitano. Rividi me stesso in loro. Un flashback mi si proiettò nella mente, vivo, presente. Chiusi gli occhi e lo vidi. Vidi il mio capitano che ci precedeva correndo davanti a noi nella foresta notturna. Ci confondevamo tra le piante, coperti di foglie e sterco. Eravamo come gatti, silenziosi, lesti e tutti all’erta. Tutti con gli occhi puntati sul nostro capitano, cercando di distinguerlo tra il buio ed il fogliame. Il suo cenno ci fu, rapido ma chiaro. Tutti lo cogliemmo ed uscimmo, uscimmo allo scoperto. Iniziammo a sparare sul villaggio con una ferocia mai vista. La quiete notturna fu interrotta dalle urla della gente che usciva per vedere cosa stesse succedendo e tutto d’un tratto cadeva a terra, morta. Il nostro capitano gridava: “Eccoli qua i vostri cattivi ribelli, ora vi faremo vedere cosa vuol dire essere nemici del Ruf”. Quel giorno fu una strage. Li uccidevamo come fossero mosche, il mio capitano rideva.

    “Seah stai bene? Seah?” la voce squillante di Marco mi riportò alla realtà. “Eh? Cosa?” “Tutto a posto? Sembravi incantato.” “Uhm…si, si.” “Vuoi giocare con i soldatini?” “NO! Non ci penso neanche!” quasi mi arrabbio per questa domanda. “Ma come no? Tu vieni dalla guerra, sai come si fa.”. Mi sale la voglia di fare del male. Vorrei calpestarlo per quello che ha detto. Non ha la minima idea di cosa significhi essere in guerra, scappare dal rumore delle bombe, nascondersi. Lui non capisce. Mi viene voglia di prenderlo a pugni fino a farglielo capire. No, devo  dominarmi. Al centro, oltre ad insegnarmi l’italiano, mi hanno insegnato a calmarmi.

    I bambini bianchi non sanno cos’è la guerra, per loro è un gioco. Io, invece, ho perso i miei genitori in guerra. Sento gli occhi riempirsi di lacrime, d’istinto le trattengo, ma poi ricordo che qui non siamo nel bush, che posso piangere, e lo faccio. Marco mi guarda: “Che c’è adesso?”. Singhiozzo un po’, non è facile reprimere la rabbia, tantomeno i ricordi, ma poi riesco a rispondere: “Io l’ho vissuta, sì, la guerra. Certo che so come si fa. So meglio di tutti voi come si fa esplodere una bomba e come si punta il mirino di un fucile. Ma non per questo sono più felice di voi. Guardatevi. Avete una famiglia e tanti amici. Io una famiglia l’ho avuta fino a quando avevo quattro anni. Poi i ribelli mi hanno preso e mi hanno trasformato in un bambino soldato.”

    Faccio una pausa, e Marco, che è un curioso fuori maniera, domanda, prima che possa finire il mio discorso: “Quindi secondo te non è stata una fortuna diventare un soldato? Insomma, non è bello avere un fucile tutto per te?”. Questa volta rispondo senza esitare: “È bello all’inizio. Ti senti protetto con il fucile a portata di mano. Il brutto viene quando quel fucile devi puntarlo contro una persona e sparare. Sparare ad una persona, specialmente da vicino, dopo aver visto il terrore nei suoi occhi, è la cosa più difficile che abbia mai fatto. Quando clicchi il grilletto…pum! È finito tutto, quella persona non vive più e tu ne sei il responsabile. Non sai quanto è brutto veder morire una persona. Almeno, quando l’ammazzi, sai di aver posto fine alle sue sofferenze, ma non a quelle dei suoi cari. Loro soffrono per la sua morte. Io, quando sono finito a Lakka per la disintossicazione, ma anche adesso nonostante siamo lontani dal mio paese, ho sempre paura di incontrare gente a cui ho ammazzato qualcuno, non mi sento mai tranquillo, è come se la guerra non fosse mai finita.”.

    Marco mi fissa. Ha un’espressione indecifrabile. Mi aspetto un’altra delle sue domande da bambino bianco stupido, ma quella domanda non arriva. Dopo un silenzio che mi pare lunghissimo, pronuncia invece una frase molto semplice: “Io non vorrei mai essere stato
    al tuo posto.”. Quelle parole mi colpiscono come una pallottola al cuore. Sono fredde, crude, ma vere. Sono vere ed intelligenti. Sono costretto a ricredermi. Forse non tutti i bianchi sono stupidi. Marco mi ha subito ammirato, oggi, quando sono entrato in classe, perché le maestre gli hanno detto che vengo dalla guerra.

    Adesso che gli ho spiegato cosa significhi guerra, forse mi starà lontano, sapendo cos’ho fatto, o forse non gli interesserò più perché non sono il soldato che si aspettava. Faccio per andarmene, convinto di aver perso quello che poteva diventare un mio amico, quando sento una mano passarmi dietro al collo ed appoggiarsi sulla mia spalla “Non capisco perché mia sorella non ti accetti, potresti insegnarle tanto, tu.”.

    Sua sorella è Cristina. È una bambina bellissima, sembra una principessa. Non pensavo che i bianchi potessero essere belli, ma lei lo è. Ha i capelli biondi raccolti in una treccia che le rimbalza sulla schiena quando corre, assomiglia a quella che la mamma faceva a mia sorella quando lei era piccolina; i suoi occhi, invece, mi ricordano il mio villaggio, perché hanno lo stesso colore delle foglie del grande baobab: sono verdi, di un verde chiarissimo. Cristina è bella, però una settimana fa, quando ho incominciato la scuola, non mi ha accolto sorridendo come suo fratello e tutti gli altri bambini. Lei non voleva nemmeno presentarsi. Ha detto il suo nome solo perché la maestra l’ha obbligata. Io non credo che Cristina sia cattiva, perché una principessa non può essere cattiva. Forse è timida, forse ha paura di parlare perché pensa di sbagliarsi, come
    un mio amico nel bush, Namir.

    In ricreazione, mentre parlo con alcuni miei amici e con Marco, che adesso è più delicato nel farmi domande sul mio passato, ho preso il vizio di osservare le bambine. Sebastiano mi ha insegnato a conquistarle. Mi ha detto che devo essere un galantuomo, o qualcosa del genere, che devo fare io il primo passo e prenderle per mano quando meno se l’aspettano. Io mi limito a lanciare verso il loro gruppetto qualche occhiata seducente, e a sorridere alla prima che si gira. Ormai tutte ricambiano e, non appena mi giro le sento bisbigliare tutte eccitate fra di loro. Tutte tranne Cristina. Lei non mi degna neppure di un sorriso. Quando mi guarda, lo fa per squadrarmi dalla testa ai piedi con aria gelida. Mi sento come se fossi qualcosa di estraneo e quasi ripugnante ai suoi occhi. Non è bello. Vorrei che anche con me ridesse e scherzasse come fa con le sue amichette e con tutti gli altri bambini.

    Tutti eccetto George, ovviamente. Anche lui è straniero, viene dal Giappone, ma è diverso da me. George è un bambino cattivo e prepotente, per questo nessuno parla con lui. Inoltre, ha preso di mira Cristina e…
    “Lasciami stareeee! Smettila George!” una vocina squillante proveniente dall’altro capo del cortile mi fa ricadere dalle nuvole. Marco ed io ci voltiamo in sincronia per capire cosa stia succedendo. Vediamo Cristina strillare contro George, che le sta tirando i capelli. Neanche a farlo apposta, si parla del diavolo e spuntano le corna. So che fa male, anche mia sorella gridava quando il nostro fratellino le tirava la treccia.

    Reagisco quasi senza pensarci e mi precipito nella direzione da cui provengono le urla. Sento i passi di Marco che mi tallona e in meno di cinque secondi mi ritrovo lì, circondato da un semicerchio di bambini che assiste alla scena con gli occhi sbarrati. Sbraito: “Siete tutti qui, perché non siete intervenuti?!”. In realtà il perché lo conosco bene: George è il bulletto della scuola ed, evidentemente, nessuno ha il coraggio di
    prendersela con lui per paura di ricevere lo stesso trattamento che riserva a Cristina. “Sebastiano è andato a chiamare la maestra!” mi risponde Anna. “La maestra non arriverà in tempo, perché in questo momento si trova a sorvegliare i bambini dall’altra parte del cortile...” sussurro all’orecchio di Marco. Basta una rapida occhiata per intenderci ed, in coalizione, ci gettiamo sul bullo. Giorgio non se l’aspetta e, colto di sorpresa, rotola a terra. Gli blocchiamo braccia e gambe, ma lui è scatenato, ed inizia a dimenarsi come un leone in gabbia, cosicché diventa difficile tenerlo. Nel frattempo, per fortuna, arriva la maestra che lo sgrida e lo porta dentro.

    Parte un applauso per noi. Con la coda dell’occhio, vedo Cristina, ormai in lacrime per lo spavento, abbracciare il fratello. Faccio per andarmene a occhi bassi, quando sento una mano sfiorarmi la spalla. Il tempo di voltarmi, e lei mi ha già gettato le braccia al collo. Mi stringe forte. Non so se crederci, mi sembra un sogno. La stringo ancora più forte, ma prima che possa dire qualunque cosa lei mi mette a tacere: “Scusa
    Seah. Non volevo trattarti in quel modo, ma pensavo che fossi come George, pensavo che tutti voi stranieri foste così. Mi sbagliavo. Tu sei buono. Possiamo ricominciare?” sento il suo respiro ansimante bloccarsi per un istante. “Certo. Si dà sempre una seconda possibilità. Bisogna dare modo alle persone di mostrarsi per come sono prima di giudicarle, e io vorrei conoscerti, Cristina.” “Grazie Seah, e io voglio conoscere te.”.

    Sorrido, lei ricambia.

    TERZI CLASSIFICATI
    Alessandro Corocher, Diego De Bortoli, Niccolò Piccoli

    GUERRA

    Guerra
    fonte di distruzione
    annienta  anime e persone
    crea l'odio tra l'uomo
    l'attaccamento alla vita
    quando ti rendi conto che la pace è finita.
    Case distrutte
    muri abbattuti
    ricordi infranti
    cuori imploranti.
    Il disprezzo dell'esistenza
    il destino ormai segnato
    non si può più scampare al fato.
    La guerra è questa
    dolore sangue o morte
    non saprai mai quale sarà la sorte.

    Torna in alto
    Una famiglia deve avere una casa dove abitare, una fabbrica dove lavorare, una scuola dove crescere i figli, un ospedale dove curarsi e una chiesa dove pregare il proprio Dio

    Giorgio La Pira